L’idea di introdurre nelle aule di Medicina l’esame di “empatia”

(AdnKronos Salute) – “La verità è che oggi i medici non sono preparati a comunicare col paziente. Nelle università italiane, nel contesto della Facoltà di Medicina, abbiamo corsi di psicologia clinica che si chiamano proprio ‘relazione medico-paziente’ e questo è ottimo.

Ma sono slide su slide, servirebbe invece una prova pratica di empatia”. E’ la riflessione di Fabio Sambataro, professore associato di Psichiatria all’università degli Studi di Udine, fra gli esperti che hanno presentato oggi a Milano uno studio sperimentale condotto dalla Fondazione Giancarlo Quarta Onlus con l’ateneo friulano (Clinica psichiatrica Asuiud Santa Maria della Misericordia).

La ricerca ha mostrato a livello di immagini gli effetti che producono sul cervello del malato le parole e i gesti dei medici quando sono adeguati ai bisogni dei loro interlocutori. L’esperto spiega all’AdnKronos Salute l’importanza di prevedere un ‘training dell’empatia’ per i camici bianchi.

“E’ stato anche oggettivamente dimostrato che ha un effetto biologico“, assicura. “Tra gli anni ’50 e ’70 – ripercorre – c’è stata una rivoluzione della medicina che ci ha permesso di diventare sempre più tecnici e molto meno orientati verso il paziente, con un processo che si chiama ‘de-umanizzazione’. Qualcuno pensa che il distacco sia d’aiuto al malato. In realtà, se è vero che il ‘sentire’ la stessa cosa che sente il paziente non è utile, il ‘capire’ quello che sente è fondamentale”.

E il medico spesso “non ha una grande percezione – osserva Sambataro – come mostra per esempio già uno studio di 15 anni fa dei chirurghi ortopedici Usa. La ricerca prevedeva che 800 pazienti e 700 medici valutassero entrambi la capacità di comunicazione verso il paziente. I medici dicevano nel 75% dei casi che erano stati capaci di trasmettere qualcosa, per i pazienti questa percentuale scendeva al 21% e i problemi più gravi venivano associati alla mancanza di comunicazione e del prendersi cura”.

Altro dato che incide è il tempo. “Un’altra ricerca – continua lo specialista – ha rilevato che solo il 23% dei pazienti riesce a dire il motivo per cui è andato a farsi visitare. Mediamente dopo circa 18 secondi il medico lo interrompe e non vuole più sentire. Neanche un minuto su 20 è dedicato a trasmettere informazioni”. “Gli americani su questo fronte sono più avanti – riflette lo psichiatra – Nel processo di accreditamento del medico esiste questo ‘clinical skill’ e quindi nella prova clinica pratica si testa anche la comunicazione camice bianco-paziente. E’ parte dell’esame. C’è un attore che recita una parte e si valuta anche come questo attore ha sentito la relazione comunicativa. Stesso discorso per la specializzazione, che prevede non solo l’ottenimento, ma esami periodici per mantenerla. Anche in questo contesto si considera la capacità di comunicazione col paziente”. Sempre negli Usa e nuovamente la Società di ortopedia, prosegue Sambataro, “ha pensato di rivolgersi a un istituto di training e si è visto che già dopo 18 settimane” questo allenamento “era in grado di migliorare tantissimo l’empatia.

E’ dunque qualcosa che si può fare e gli strumenti ci sono. Gli esempi concreti sono fondamentali, avere vignette che illustrano situazioni pratiche, ricevere feedback. Tutto questo in America si fa tanto. In Italia queste cose ancora mancano. E’ importante insegnare le basi neurobiologiche dell’empatia, perché si è visto che porta al miglioramento della relazione medico-paziente”. La tecnologia, in alcuni casi, può essere d’aiuto.

“E’ stato di recente condotto uno studio con un videogame utilizzato per testare le capacità empatiche della persona – riferisce il docente – Protagonista un alieno che doveva quantificare e decodificare le emozioni. Si è visto che le stesse aree cerebrali attivate in questo studio mostravano un cambiamento nella loro attivazione dopo un training giornaliero col videogame. L’effetto che si ottiene allenando l’empatia è dunque dimostrabile”. Quanto all’avanzare della tecnologia nella professione medica, “a mio avviso – conclude Sambataro – sono positivi tutti i progressi della scienza e della tecnica, ma vanno integrati. Il primo passo è sempre ascoltare il paziente.

Il rapporto umano è l’inizio di tutto. E si è visto che anche chi non appartiene a branche della medicina estremamente tecnologiche ha lo stesso rischio di deumanizzazione, che resta costante nel tempo”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.