La musicoterapia con bambini dagli 0 ai 3 anni permette di incrementare svariate capacità, in particolar modo l’apprendimento linguistico.
Quando si sente parlare di musicoterapia, si pensa a lezioni pratiche di canto o di apprendimento dello strumento. Ma non è così. La musicoterapia invece permette al bambino di sviluppare capacità innate che altrimenti perderebbe nel giro di qualche anno.
Uno dei metodi più efficaci in musicoterapia scolastica è il Metodo Gordoniano. Non si tratta di un semplice ascolto casuale di canzoncine per bambini ma di ascolto melodico selezionato ad hoc a seguito dell’osservazione diretta del contesto classe. Ogni applicazione avrà degli obiettivi prestabiliti alla base.
La teoria di E. Gordon, “Music Learning Theory” si è sviluppata negli Stati Uniti più di venti anni fa ed è approdata in Italia nei primi anni del 2000.
“Gordon analizzava come i bambini, anche i neonati, ‘stavano nella musica’- spiega Annamaria Diroma, musicista e didatta, docente di flauto presso la Scuola Secondaria che collabora conl’Associazione Musica Nova e che proprio in Mlt si è laureata al Dams quasi venti anni fa. “Le parole vengono superate dalla melodia e dal ritmo, scanditi da sillabe neutre. Viene elaborato un linguaggio musicale basato su costruzioni sintattiche e armoniche lineari e neutre, che attirano l’attenzione del bambino. Per Gordon l’apprendimento del linguaggio musicale è equiparato a quello del linguaggio”.

Come funziona?
Fino ai 2 anni il bambino ascolta melodie vocali. Spesso i gruppi sono composti da un massimo di 10 bambini, il setting è molto neutro con colori caldi e accoglienti che non fungano da distrattori. Non è raro che ad accompagnare il musicoterapeuta ci sia un educatore che effettua delle polifonie. I canti sono di breve durata, con specifiche tonalità e vi è un’alternanza di melodie. E’ importante che il musicoterapeuta abbia capacità di osservazione del gruppo. “Ogni piccolo è diverso e risponde in maniera del tutto personale e spontanea allo stimolo musicale: qualcuno ascolta immobile, qualcuno si muove, altri ‘rispondono’ con dei fonemi, inserendosi nel canto o a fine lezione – continua l’insegnante. – Si sviluppa il cosiddetto ‘pensiero musicale’ o audiaction. Poi c’è chi risponde in modo autonomo, chi è influenzato dagli altri. Si instaura una sorta di “dialogo” musicale con il piccolo che elabora lo stimolo nei suoi modi e tempi. C’è un netto parallelismo con l’apprendimento del linguaggio”.
Questo tipo di attività consente di attivare varie sfere di apprendimento, grazie al contatto diretto con la sintassi musicale. E’ stato riscontrato che questo tipo di attività incrementi il livello di attenzione, la capacità di porsi in ascolto, il dialogo, l’esposizione del pensiero e le capacità di lettura.
Mi sembra che si confonda musicoterapia con educazione musicale. E poi perché terapeutizzare tutti i bimbi fin dal nido? Mah!
Valgono sempre le parole di Melucci: «La nostra vita quotidiana è oggetto di cura come mai non era accaduto in passato. Essa non è più il campo dell’esperienza e La nostra vita quotidiana è oggetto di cura come mai non era accaduto in passato. Essa non è più il campo dell’esperienza e delle relazioni, ma uno spazio di attenzione e di intervento per una quantità di specialisti, che individuano problemi e ci propongono soluzioni.
Le politiche dei servizi sociali e sanitari sono le prime ad alimentare questa tendenza. Le politiche preventive operano ormai secondo una logica di classificazione preliminare di gruppi di popolazione, identificati in base a indicatori sociali, territoriali ed epidemiologici. L’appartenenza a una fascia di popolazione e l’ingresso in uno dei canali predisposti per il trattamento del problema (che è definito come patologia o rischio di patologia) diventa il criterio di identificazione per ciascuno di noi e segna da quel punto in poi le nostre storie individuali.
Le relazioni sociali si trasformano in “problemi” o in patologie e si diffondono gli interventi terapeutici in campi diversi, dai rapporti sessuali, alla famiglia, all’educazione dei figli, alla scuola. In tutti questi settori si moltiplicano messaggi di allarme e gli interventi conseguenti, volti a risolvere problemi che sono stati esaltati dall’allarme stesso. […]
Nei processi educativi, familiari e scolastici, il rapporto pedagogico si trasforma spesso in rapporto terapeutico. Qualunque difficoltà di apprendimento o di comunicazione viene letta come deficit psicologico o relazionale e attiva un processo di trattamento settoriale, che non è in genere che l’inizio di una catena di interventi. […] Si verifica così una estesa terapeutizzazione del quotidiano e l’imperativo sembra quello di guarire la vita anzichè viverla.
(da: Alberto Melucci, Il gioco dell’io. Il cambiamento di sè in una società globale, Feltrinelli, Milano 1991,
pagg. 87-88)