“Cara amica A.,
È da tanto tempo che desidero parlarti, ed ora che inizia un nuovo anno, sento che è giunto il momento di farlo. Così, anche se so già che non mi risponderai, ti scrivo una lettera – che fa tanto old style – sperando di trovare le parole giuste per chiarire le cose con te una volta per tutte.
Non ti agitare come al solito, per favore! Già ti immagino che respiri nel sacchetto, lo gonfi e lo sgonfi, lo gonfi e lo sgonfi, lo gonfi e lo sgonfi e fai venire il respiro corto pure a me. Calmati e cerca di contenerti, almeno per il breve tempo di questa lettera. No, no, niente isterismi e goccette di valeriana: mi dispiace, cara, ma stavolta non ti consentirò di assorbire tutta la mia attenzione. Questo è il mio momento di esprimermi liberamente, senza remore o timore di giudizio. Perciò rilassati e ascolta, perché sto per dirti, sinceramente, tutta la verità e nient’altro che la verità.
Da un po’ di tempo, amica mia, io non ti sopporto più. Non prendertela, non è colpa tua, tu sei quello che sei: sono io che sono cambiata. E da quando sono diversa, tollero a fatica la tua presenza. Non piangere così forte per favore, cerca di capire: dal mio punto di vista, tu ormai sei troppo faticosa. Certi giorni, amica mia, tu mi rendi la vita invivibile. Negli anni sei peggiorata, e sei diventata come una coinquilina scomoda, di quelle umorali e piene di regole assurde. O come una cugina un po’ problematica, che non ha amici e a cui devi per forza tenere compagnia.
Ti starai chiedendo com’è potuto succedere che mi sia stancata di te. Proprio di te, che sei sempre stata la mia amica per la pelle, la mia gemella indivisibile.
Hai ragione. Tu sei sempre stata al mio fianco. Eri con me quando sono nata, che mi mancava la mamma e avevo paura di tutto. Eri con me nei viaggi in macchina più lunghi, quando non chiudevo occhio e continuavo a chiedere “Siamo arrivati? Allora, siamo arrivati?”. Eri con me quando la sera, nel letto, domandavo a papà di raccontarmi ancora una fiaba, solo una e poi basta, perché non mi andava di restare al buio da sola. Eri con me in tutte le mie prime volte: il mio primo giorno di scuola, il primo saggio di danza, la prima lezione di nuoto, la prima comunione. Il primo pigiama party con le amiche, il primo fidanzatino, poi il primo bacio e la prima vacanza da sola.
A scuola, in effetti, eri con me quasi sempre. Mi dicevi che dovevo leggere più svelta e sicura, e io ogni volta non vedevo più la pagina, confondevo le righe e mi mangiavo tutte le parole. Mi dicevi che dovevo stare attenta a non dire cose stupide, a non inciampare e a non fare figuracce, perché poi tutti avrebbero riso di me. Mi dicevi che dovevo sempre dare la risposta giusta: poi, quando riuscivo, dicevi che quella non contava, ché dovevo azzeccare la risposta successiva; quando invece sbagliavo, mi ripetevi che non avevo fatto abbastanza per evitarlo, perché gli sbagli non piacciono a nessuno, così come le persone che li fanno.
Quando la scuola è finita, mi hai seguita all’università: odiavi gli esami, e se non avevo letto tutti i libri, cercavi di convincermi a non andare agli appelli. Poi, quando sono entrata nel mondo del lavoro, ti sei piazzata da me e non sei voluta andar più via. Da allora, tutti i santi giorni, non fai che inscenare tragedie, supporre complotti, mettere zizzania e ispirare paranoie infondate: sei la collaboratrice peggiore che io abbia mai avuto.
Con questo non voglio dire che tu non sia stata preziosa, amica mia.Senza di te, avrei scordato che il fuoco brucia, che quando si cammina bisogna guardare dove si mettono i piedi, che l’asciugacapelli acceso nell’acqua della vasca non si mette, che si attraversa guardando sia a destra che a sinistra, che non bisogna fidarsi degli sconosciuti. Senza di te, insomma, io non avrei imparato ad essere attenta e prudente, a proteggermi o a riconoscere comportamenti dannosi per me e per gli altri – oltre che a pagare le bollette in tempo. Tu sei quella che spinge in automatico il mio piede destro sul pedale del freno, che suggerisce al mio istinto di mettermi in salvo da una folla in fuga, che mi aiuta a memorizzare le strade quando temo di perdermi. Senza il tuo grido d’allarme, io sarei forse già passata e trapassata.
Ma la tua voce, più che una sirena salvifica, ormai è diventata un continuo “Al lupo, al lupo!”. Con te è impossibile divertirsi: è tutto un “hai spento il gas?” e “hai chiuso la porta di casa”? Per colpa tua non posso prendere l’aereo senza calmanti e rituali scaramantici – tu mi dici sempre che volare è innaturale! Non posso salire in ascensore senza ripetermi che, nel caso si blocchi, ci vogliono ore perché l’ossigeno si consumi; non posso andare a un concerto senza visualizzare tutte le vie di fuga, o salire su un treno senza temere che deragli. Con il tuo continuo, estenuante ipotizzare, hai reso la mia immaginazione troppo vivida: mentre guido mi ritrovo a visualizzare sinistri stradali. Un mobile vibra, e io finisco sotto un architrave a ripassare la procedura antisismica. Ho una fitta all’addome, e tento di diagnosticarmi una peritonite. Non respiro più a bocca aperta sui mezzi pubblici o in un ospedale. Non giro più con i finestrini aperti l’estate, perché so che se entrasse un insetto nell’abitacolo salterei fuori dall’auto in corsa come uno stuntman. Non riesco a lasciare un luogo senza fare continuamente il check di tutte le cose che ho con me, per essere certa di non perdere nulla. Non resisto per più di due ore in un centro commerciale.
Va bene essere previdenti, ma a tutto c’è un limite: e tu l’hai oltrepassato da un bel po’. Pensavo mi stessi aiutando a crescere, e invece mi hai solo rubato energie per anni, e inculcato un sacco di strane fobie che non riesco a controllare: paure ingestibili e inspiegabili, che mi fanno stare malissimo e sentire troppo in imbarazzo, tanto che spesso preferisco restare a casa, l’unico posto in cui tu hai l’impressione di tenere tutto sotto controllo. Tu mi aiuti ancora sì, ma ormai solo a ritardare, a rimandare, a desistere e a fallire.
Sono stanca di spiegare agli altri che sei tu che mi fai comportare così. Tutti mi chiedono perché mi stresso così tanto, perché faccio tutto così difficile, perché alzo la voce o non faccio un bel respiro. Non sanno che sei tu che mi fai battere il cuore e ronzare le orecchie, mi metti fame d’aria, mi fai venire la nausea e sudare e mi stampi sul volto l’occhio sbarrato del coniglio stanato col fumo.
Sono stanca di perdere la testa e ripetere ancora e ancora: non posso farci niente, è più forte di me. Scusate, è più forte di me. Vi giuro, adesso smetto. Un attimo e torno. La prossima volta, non posso, davvero. È più forte di me. No, cara, tu non sei più forte di me, né più grande. Anzi, certe volte sei così inutile e immotivata, che con una parola riesco a farti piccola piccola. E poi non hai ragione tu: non è sempre tutto una questione di vita o di morte. La fine del mondo non sta arrivando. E anche se fosse dietro l’angolo, valutare tutte le possibilità non mi aiuterà a prevedere quando accadrà, anzi: mi distrarrà impedendomi di cogliere i veri segnali, o in caso contrario di rilassarmi e godermi il mio tempo.
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Sono stanca di vivere in stato di emergenza. Voglio imparare ad adattarmi. Lo dice Darwin: solo chi si adatta sopravvive. E io voglio molto più che sopravvivere. Io, da quest’anno, voglio vivere davvero. Perciò, sappi che non ti darò più retta. Da oggi, di te conserverò solo i ricordi positivi, come si fa con gli amici di vecchia data. Tornerai, ma solo come anelito: sarai fame di vita e di avventura, voglia di emozionarsi, di rischiare, di scoprire e immaginare.
Addio cara amica Ansia,
Non più così tua
M. “